Ero in bicicletta, stavo ascoltando un podcast e ho sentito una frase che mi ha fatto sbandare.
«Solo agli schiavi era chiesto di svolgere un unico compito per tutta la vita».
Sono sceso dalla bicicletta e ho approfondito.
La frase proveniva da un video di Dan Koe, un tizio abbastanza strano che affronta però in modo molto incisivo i temi del futuro del lavoro e dello sviluppo personale nella nostra epoca di grandi trasformazioni.
Koe nel video citava un tweet di Devon Eriksen, tizio non meno strano, ingegnere informatico e scrittore di fantascienza, che vede nei sistemi educativi moderni un residuo del tipo di istruzione che era destinata agli schiavi: insegnare competenze specifiche e il più possibile verticali, perché le persone possano svolgere al meglio un solo compito per tutta la vita.
L’idea colpisce perché siamo convinti che la schiavitù non abbia più niente a che fare con il mondo moderno. Ma a pensarci bene viviamo in un sistema che incoraggia l’obbedienza, minaccia sanzioni e punizioni, ci chiede di essere utili e funzionali.
Eppure questo non è ciò che ci si aspetta dalle persone libere. Le persone libere devono agire secondo il proprio interesse, coltivare le proprie passioni, esplorare sempre nuove possibilità, e svolgere nel corso della vita tante attività diverse.
Fai di me quello che vuoi
Finora, nel contesto dell’economia industriale e del management scientifico, comportarsi da schiavi è stato incentivato, e quindi poteva perfino essere conveniente: carriera assicurata, stabilità economica, riconoscimento sociale.
Questo sistema ha lasciato in eredità alle persone un'attitudine passiva, un’inclinazione alla delega, l’idea che trovare un lavoro significasse consegnare interamente il proprio percorso professionale e personale a un’organizzazione.
Sul posto di lavoro siamo dominati da una serie di inerzie:
Ci affidiamo alla nostra formazione di partenza e raramente ricerchiamo forme attive di apprendimento.
Siamo ostili al cambiamento, e ci rifugiamo nello status quo.
Deleghiamo ai datori di lavoro la gestione della nostra carriera.
Preferiamo la sicurezza di uno stipendio alla soddisfazione personale.
E così ci ritroviamo schiavi. Viviamo il lavoro con frustrazione, stanchezza, distacco. Cominciamo a odiare il lunedì, mentre quello che dovremmo odiare è la gabbia che ci siamo costruiti.
Oggi del resto scegliere la schiavitù non è soltanto degradante da un punto di vista etico. È penalizzante da un punto di vista professionale, perché il sistema intorno a noi sta cambiando, e restare passivi ad aspettare che ci venga assegnata una mansione non basta più. Anzi, è la ricetta sicura per rimanere vittime di una riorganizzazione.
L’azienda c’est moi
Quando chiedevano allo scrittore francese Gustave Flaubert se per scrivere Madame Bovary si era ispirato a una persona reale, lui rispondeva: «Madame Bovary c’est moi». Per dire che il romanzo non era il racconto di un pettegolezzo, ma conteneva tutto ciò che aveva capito dell’esistenza umana.
La stessa cosa dovrebbe poter rispondere, a chi gli chiede “per chi lavori?”, il professionista del futuro: la mia azienda sono io.
Io agisco e penso come una Company of One, secondo la definizione di Paul Jervis, ripresa e approfondita da Rishad Tobaccowala. Mi doto degli strumenti che servono a organizzarmi e propormi all’esterno come un One Person Business.
Essere la propria impresa significa avere il pieno controllo del proprio lavoro, imparare a valorizzare (e quindi vendere) le proprie competenze, continuare a innovarsi, essere sempre alla ricerca di nuove opportunità.
Non serve per forza essere un libero professionista. Si può essere una company of one anche lavorando all’interno di un’organizzazione, e concependo quell’organizzazione come un ecosistema in cui si muovono tante aziende-persone il cui scopo è creare valore.
Pensarsi come un’azienda non ha niente a che vedere con l’idea di Sam Altman secondo cui presto potrebbe nascere la prima company con una valutazione di un miliardo di dollari gestita da una persona sola, che si serve solo dell’intelligenza artificiale per svolgere il lavoro. Né con l’idea di Jensen Huang per cui presto saremo tutti CEO di un esercito di AI agents.
Significa piuttosto pensare a sé stessi con la libertà, il coraggio, l’intraprendenza con cui un founder pensa alla propria azienda.
Vendi il tuo lavoro prima che lui venda te
Cosa serve per diventare una company of one? Il contrario dell’educazione dello schiavo.
L’educazione degli uomini e delle donne liberi è sempre stata la più ampia e completa possibile, e comprendeva le discipline che venivano definite, appunto, arti liberali: matematica, filosofia, retorica, arte, musica. Non era una forma di addestramento, ma doveva insegnare a pensare e a vivere pienamente.
Nel mondo contemporaneo competenze e discipline cambiano, ma le nuove arti liberatorie sono quelle che permettono alle persone di essere in controllo della propria vita e del proprio lavoro, di comprendere i fenomeni più rilevanti, di non perdere mai di vista il contesto, di creare relazioni significative ed evolvere continuamente.
Naturalmente sarà importante avere e coltivare competenze distintive, quelle per cui gli altri saranno disposti a pagare. Ma la specializzazione degli esperti avrà sempre meno valore in un mondo in cui le conoscenze tecniche, le skill specifiche, non hanno praticamente più barriere di accesso, e possono essere trasferite sempre più facilmente alle macchine.
Così non resta che coltivare e nutrire le competenze non soggette a obsolescenza tecnologica: capacità comunicative, pensiero critico, attitudine alla collaborazione, creatività, immaginazione e continua re-immaginazione di sé.
Sarà questo tipo di auto-formazione a darci la libertà e la consapevolezza che servono per agire come un’impresa. Per essere cioè soggetti autonomi e responsabili ai quali il lavoro non viene concesso e assegnato, ma che offrono il proprio lavoro a chi ne ha bisogno.
In pratica
Per le persone
Partiamo dalle persone stavolta, perché è da te che deve cominciare la liberazione. Smetti di delegare la tua carriera e il tuo sviluppo agli altri: diventa il tuo dipartimento risorse umane. E pensa sempre che nessuno ti sta dando lavoro, sei tu che lo stai vendendo. Impara a dare il giusto valore alle tue competenze, e a promuoverle. Costruisci anche attività divergenti: scrivi, apri un blog, parla in pubblico, cura il tuo portfolio. Trova uno scopo che va al di là del lavoro, e raccontalo. Coltiva un network di relazioni in cui sei tu a presentarti e ad agire, non il tuo ruolo o la tua funzione. E infine: usa la generosità come strategia, sii raggiungibile e accessibile, perché questo sarà sempre il vantaggio competitivo più importante.
Per le organizzazioni
Non c’è dubbio che per un’azienda sia sempre preferibile avere persone che sanno fare più cose, hanno voglia di imparare, sono responsabili, autonome e intraprendenti. La sfida per le organizzazioni sarà quindi trovare un bilanciamento tra autonomia e orchestrazione: guidare i processi senza soffocare l’iniziativa personale e capire quando mettere un confine all’autonomia, non per limitare la libertà, ma per incanalarla. Gli argini non fermano i fiumi: consegnano loro una direzione.
Che bella mail del Lunedì mattina.
Grazie.
Ti condivido le riflessioni che mi ha stimolato come piccolo scambio del valore che regali attraverso le tue mail.
Autonomia, libertà, valori e competenza nelle relazioni umane sono fortemente interconnesse. La traduzione di libertà che preferisco è "capacità di scegliere i propri confini". E scegliere i propri confini richiede competenza, coraggio, autonomia, consapevolezza dei propri valori e capacità di rispettare i limiti del prossimo. Il modello didattico occidentale che ci ha formato ha violato, o forse deviato, una caratteristica naturale che ci contraddistingue: la curiosità. E così abbiamo imparato per essere giudicati bene non per comprendere l'utilità di quanto appreso, soddisfare la nostra innata curiosità, e costruire la nostra autonomia ed indipendenza rispettosa del prossimo. Hanno anche lasciato morire l'empatia ovvero la capacità di connetterci con gli altri sapendo distingue le nostre emozioni da quelle che percepiamo dagli altri.
Tutto questo ci ha reso schiavi perchè impauriti di un giudizio, violati nella nostra curiosità, immaturi nell'empatia e dipendenti da una sicurezza indotta dagli altri e dai una libertà confinata, rigida e scelta dagli altri.
La consapevolezza per interrompere il ruolo di schiavo e iniziare l'avventuara dell'esploratore/ice è il primo passo e per l'attività sociale che stai facendo in tal senso ti ringrazio.