Perché siamo portati a pensare che deve sempre esserci un conflitto, più o meno esplicito, tra chi dirige il lavoro e chi lavora?
Perché tendiamo spesso a prendercela con “il capo”?
La mia impressione è che quasi mai dipende dalle persone, piuttosto dipende dal modo in cui abbiamo organizzato il lavoro finora.
Nelle aziende tradizionali più si sale nella gerarchia, più ci si allontana dall’esecuzione. Si perde contatto con i problemi, le difficoltà, le sfide del lavoro quotidiano. Si perdono di vista i bisogni di chi lavora — e così nascono i conflitti tra chi gestisce e chi fa le cose.
La buona notizia è che questa storia sta per finire. La notizia un po’ meno buona è che questa storia finisce perché le aziende stanno licenziando i manager.
Benvenuti nell’era dell’unbossing.
Managers managing managers
Bayer, Salesforce, Citigroup, Meta, Amazon: tutte le ristrutturazioni che le grandi aziende hanno annunciato negli ultimi tempi hanno una cosa in comune. Il taglio dei manager. La riduzione dei quadri intermedi.
Per dirla con le parole di Zuckerberg: basta con “managers managing managers, managing managers, managing managers, managing the people who are doing the work.”
Manager che dirigono altri manager che dirigono altri manager che dirigono le persone che lavorano.
In effetti pare che prima del recente piano di ristrutturazione dentro Bayer ci fossero anche 12 livelli decisionali a separare il management dal rapporto diretto con l’esterno.
Ridurre questo tipo di complessità organizzativa non significa solo tagliare i costi. Significa portare le decisioni e le responsabilità più vicino all’esecuzione, più a contatto con i luoghi in cui si lavora e si crea valore per i clienti. Eliminando tutto il lavoro superfluo e improduttivo che ha fatto perdere a chi lavora il senso stesso di quello che fa.
Bullshit
Il proliferare delle gerarchie e delle strutture infatti ha accresciuto a dismisura il numero di quelli che l’antropologo David Graeber ha definito bullshit jobs. Mansioni ripetitive e ridondanti, per lo più inutili o a bassissimo valore aggiunto. Compiti che degradano chi li svolge, non portano risultati all’azienda, e spesso servono soltanto a giustificare e alimentare l’esistenza stessa dell’apparato gestionale e amministrativo.
Secondo una serie di dati raccolti nel 2019 molti knowledge worker riescono a dedicare solo il 40% del proprio tempo al loro vero lavoro. Per il resto del tempo sono bloccati da obblighi amministrativi, burocrazia, meeting inutili, interruzioni che servono solo a mandare avanti la macchina dell'organizzazione.
Con la riduzione dei livelli intermedi e del micromanaging, le aziende sperano di poter trasformare i loro bullshit workers in “individual contributors”. Professionisti che senza avere responsabilità di gestione contribuiscono in maniera indipendente a realizzare obiettivi e risultati di un’organizzazione. Senza per forza fare parte dell’organizzazione in modo strutturato.
La mia azienda sono io, ricordate?
L’unbundle della matassa
Le riorganizzazioni che appiattiscono le gerarchie e snelliscono gli organici seguono un pattern comune, che si può riassumere in tre mosse:
Smantellare la piramide monolitica, l’organizzazione gerarchica costosa, inefficiente, incapace di innovare.
Trasformarla in una galassia unbundled, in cui le funzioni vengono spacchettate e sostituite da unità indipendenti.
Creare nuove costellazioni: persone e piccoli team si riaggregano non intorno a un capo ma intorno ai bisogni finali di un cliente, con focus su specifici progetti e prodotti.
L’obiettivo è favorire l’agilità, la flessibilità, la capacità di innovare. E liberare il talento di chi lavora dai vincoli del management, dai processi, dalle catene decisionali. Dare a chi davvero crea valore la possibilità di prendere decisioni rapide e di rispondere in maniera più reattiva alle richieste e ai bisogni dei clienti.
Dal boss al leader
Nelle organizzazioni unbundled la figura del capo tende a scomparire, ed emerge la figura del leader. Ovvero una personalità in grado di guidare, abilitare, mettersi al servizio del lavoro del team. Il passaggio dal boss al leader porta con sé almeno due spostamenti fondamentali:
Dalla zona di controllo alla zona di influenza. Il leader non deve controllare orari, processi, allocazioni, timesheet: deve supportare e motivare il lavoro degli altri, spronare verso la qualità e l’eccellenza, influenzare i comportamenti attraverso l’impegno e la capacità di agire, prendersi cura della crescita del team e dei suoi componenti, individuare le sfide future che è importante affrontare.
Dal manager al crafter. L’influenza del leader non deriva dal ruolo o dalla capacità di gestione: deriva dalla sua conoscenza del lavoro e dalla sua capacità di migliorarlo nel concreto, di risolvere problemi e trovare soluzioni, di espandere e aggiornare continuamente le sue abilità. Il leader sarà la persona che saprà coltivare le competenze più avanzate, continuare ad evolvere, restare sempre un passo avanti. Mentre il manager tradizionale è spesso un passo indietro rispetto alle persone che deve dirigere.
Il leader non ha bisogno di essere un capo per agire ed esercitare la sua influenza. Mentre nessun job title ufficiale potrà trasformare un capo in un leader.
In pratica
Per le organizzazioni
Nell’ultimo numero della sua newsletter The Sociology of Business, Ana Andjelic prova a immaginare l’evoluzione futura dei luxury brand. Tra i consigli che dà alle grandi aziende della moda c’è quello di abbandonare la struttura piramidale che culmina nella figura accentratrice del direttore creativo. E sostituirla con strutture flessibili in cui creator con competenze e professionalità diverse si mettono insieme per creare prodotti, esperienze, eventi, contenuti tutti connessi all’identità del brand. Come fanno le piattaforme di intrattenimento, i brand dovranno creare network di creativi, artigiani, innovatori in grado di attivarsi intorno a progetti specifici. È un consiglio che non vale solo per le aziende del lusso, ma per qualunque azienda che voglia innovare e restare competitiva.
Per le persone
Strutture meno tradizionali e gerarchiche offrono alle persone maggiori opportunità, sia per chi lavora all’interno delle organizzazioni, sia per chi lavora all’esterno.
All’interno saranno rimosse molte barriere di ingresso e ostacoli all’avanzamento: l’anzianità sarà sempre meno un criterio di promozione, e sarà valorizzato l’apporto concreto e i risultati che ognuno è in grado di ottenere. Nell’epoca del “post capo” sarà più facile diventare leader, cioè assumersi responsabilità, guidare un progetto, indicare nuove direzioni. Anche per chi non occupa le tradizionali posizioni apicali.
All’esterno le persone avranno più possibilità di contribuire al lavoro delle aziende da “battitori liberi”, collaboratori individuali a cui sarà dato sempre più accesso e spazio di manovra dentro le organizzazioni. Così le persone dovranno mostrare di poter dare un contributo ai progetti e agli obiettivi dell’azienda, di poter partecipare al raggiungimento dei risultati, e dovranno imparare a proporre e valorizzare il proprio contributo individuale. Sempre di più in futuro le organizzazioni cercheranno le qualità del leader anche al di fuori della propria forza lavoro interna.