“Chi ti dice di seguire le tue passioni è già ricco.”
— Scott Galloway
C’è un momento, nella vita lavorativa, in cui si fa strada una consapevolezza: non siamo stanchi perché facciamo troppe cose, ma perché quelle cose non ci portano da nessuna parte.
Le giornate si riempiono di richieste e scadenze, arriviamo a sera con la sensazione di non aver nemmeno cominciato, perché nessuna delle attività che abbiamo fatto ha lasciato una traccia. Né intorno a noi, né dentro di noi.
All’inizio è solo un po’ di irritazione, la fatica per concentrarsi, il bisogno sempre più frequente di “staccare”. C’è qualcosa che non torna, ma non si riesce ancora a nominare. Poi diventa più chiaro: il problema non è tanto la fatica, ma il fatto che stai risolvendo problemi che non hai scelto. Stai facendo un lavoro che non è tuo.
Anche io ci sono passato, e da quel momento ho iniziato a osservare con occhi diversi le dinamiche che tengono insieme le nostre vite professionali. Ho smesso di chiedermi “che cosa ti appassiona?” e ho cominciato a domandarmi: “quali problemi sei disposto ad affrontare, che gli altri evitano?”.
È una domanda meno brillante, meno adatta ai post motivazionali di LinkedIn, ma infinitamente più utile. Quando riesci a rispondere con onestà capisci subito cosa tenere, cosa lasciare e su cosa vale davvero la pena investire il tuo tempo.
Il lavoro non cambia finché non scegli i tuoi problemi
In tutte le esperienze professionali insoddisfacenti c’è una costante: chi le vive sta affrontando problemi che non ha scelto.
Quando sono gli altri a definire le sfide che affronti, tu esegui; anche se lo fai bene, anche se sei pagato per farlo, il tuo tempo è comunque subordinato alle scelte di qualcun altro. Se invece sei tu a definire il perimetro della tua fatica, allora quel tempo, anche se faticoso, ti appartiene.
Lo ha detto con lucidità MrBeast, ospite del podcast The Diary of a CEO:
“There’s a reason no one makes videos like me. Because no one wants to live the life I live, or be in my head. They would be miserable.”
Non è la passione o il talento ad averlo fatto diventare chi è, ma la disponibilità a convivere con un certo tipo di ossessione, di intensità, di complessità che la maggior parte delle persone non reggerebbe. Ha scelto il suo problema e ci ha costruito attorno un’intera infrastruttura: mentale, organizzativa, creativa.
Scott Galloway ha ragione quando dice che “chi ti consiglia di seguire le tue passioni è già ricco.” Non ha senso inseguire una passione come se fosse la terra promessa a cui dobbiamo arrivare. Ha più senso scegliere un problema che siamo disposti ad affrontare ogni giorno, perché è solo da lì che può emergere, nel tempo, qualcosa che assomiglia a uno scopo.
Questa capacità – apparentemente semplice – di scegliere il proprio problema è la linea di confine tra un lavoro che produce energia e uno che la prosciuga.
Eppure, nel modo in cui è costruito oggi il lavoro dentro le organizzazioni e nei percorsi di carriera, si tende ancora a premiare chi sa eseguire, adattarsi, rispondere con efficienza alle richieste di altri. È il motivo per cui i lavori sono diventati sempre più processuali, codificati e ottimizzati: meno immaginazione, più controllo, standardizzazione, automazione.
In questo scenario il rischio non è solo quello di essere sostituibili, ma quello di diventare progressivamente indistinguibili: educati a funzionare bene dentro sistemi che ci vogliono misurabili e prevedibili. Compatibili. E il problema non è la tecnologia in sé, ma il fatto che ci stiamo adattando a un mondo che non ci chiede di essere più umani, ma più efficienti.
Il purpose non è la causa, ma una conseguenza
Ho letto un libro interessante di Dan Koe, Purpose & Profit: si può scaricare gratuitamente in pdf, oppure acquistare qui. Dan ha un approccio audace, provocatorio, a tratti estremo; ma la lettura che propone è preziosa, perché rifiuta l’idea che il purpose sia una condizione originaria da “scoprire”. Non si tratta di un talento nascosto, una passione da seguire, ma di una funzione che si sviluppa attraversando diversi stadi di maturazione.
Si parte dalla sopravvivenza: lo spazio in cui il lavoro è una questione puramente materiale. Serve a pagare le bollette, a garantire un minimo di sicurezza, a tenere insieme il giorno dopo giorno. In questa fase non c’è margine per la scelta, né per il senso. Tutto è assorbito dal bisogno.
Poi si passa, quando possibile, allo status: il bisogno di riconoscimento e appartenenza. La ricerca di un’affermazione. Qui il lavoro diventa anche simbolico: inizia a definire chi siamo agli occhi degli altri, si popola di aspirazioni e aspettative. Ma resta ancora fortemente orientato verso l’esterno.
La fase successiva è quella della creatività. È qui che il lavoro comincia a prendere una direzione propria, più autonoma e consapevole. Si lavora non più solo “per”, ma “a partire da” qualcosa: da una sensibilità, da una visione, da un’idea di mondo. È in questo spazio che si comincia a scegliere davvero i propri problemi e a delineare una traiettoria personale.
Infine arriva il contributo. Non è una fase obbligata, né definitiva. Ma è quella in cui il lavoro smette di ruotare intorno a sé stesso e diventa strumento per generare impatto e costruire qualcosa che resta. Qui il purpose smette di essere un bisogno e diventa un effetto.
Questi quattro stadi – sopravvivenza, status, creatività, contributo – non sono un modello da seguire, ma una mappa per orientarsi. Aiutano a capire dove siamo, cosa ci sta bloccando, e quale tipo di energia guida le nostre scelte. E soprattutto ci ricordano che non si può costruire un purpose autentico saltando le fasi: chi non ha affrontato la sopravvivenza difficilmente saprà distinguere il valore reale del contributo; chi si è fermato allo status continuerà a cercare riconoscimento in ogni progetto.
È solo quando impariamo a vedere il lavoro come un percorso evolutivo, e non come un’etichetta da trovare, che iniziamo a costruire qualcosa che somiglia davvero a una direzione.
Le nuove regole del lavoro
Per chi lavora
Interrogati su quali problemi riesci a sostenere più degli altri, non perché ti piacciono, ma perché ti chiamano. Se riesci a sopportarli senza crollare o perderti, probabilmente sono quelli giusti.
Non aspettare di “capire cosa vuoi fare”: inizia a costruire e a testare, a sbagliare e a deviare. Il senso arriva dopo, non prima.
Proteggi le parti del tuo lavoro che non sono automatizzabili: relazioni, giudizio, sensibilità, visione.
Rifiuta – quando puoi – i problemi che non ti somigliano. Anche quando sembrano utili, o urgenti, o prestigiosi.
Per le organizzazioni
Non assegnate alle persone uno scopo. Create le condizioni perché emerga, garantendo libertà, margini di scelta e fiducia.
Non occupate voi tutto il tempo di chi lavora con compiti e task. Il senso ha bisogno di vuoti e di tregue, di uno spazio di decompressione.
Il consiglio più difficile, almeno per me: progettate percorsi di carriera che tengano conto delle fasi del purpose. Non tutti vogliono cambiare il mondo: alcuni stanno ancora cercando sicurezza.
Siate disposti a perdere le persone migliori. Se trovano il loro scopo, a volte vorranno usarlo altrove. Non è una sconfitta, ma il segno che il vostro sistema ha funzionato.
Davvero grandi complimenti per questo articolo e per la newsletter in generale. Hai una chiarezza di pensiero che riesci a comunicare con efficacia: mi permetti di collegare puntini che altrimenti nella mia testa rimarrebbero solo una nube indistinta di idee e riflessioni.
Spesso è difficile per chi è agli inizi della propria carriera, come me, capire questi concetti: abbiamo un'idea di purpose ma non sappiamo come o quando perseguirlo. Ancora più difficile è provare a spiegarlo agli altri quando si parla di lavoro!
L’ho letto e ascoltato 2 volte, sono felice di non leggere le solite riflessioni comuni da post motivazionale. La domanda potente sul problema che voglio risolvere la porterò con me! Grazie