La scorsa settimana ci siamo lasciati con una domanda: che cosa intendono davvero le aziende quando parlano di cultura?
Partiamo da una definizione: la cultura è l’insieme di valori, convinzioni, conoscenze, regole, linguaggi e comportamenti che caratterizzano un gruppo umano. Sulla cultura si fonda il funzionamento di una società, e per questo i suoi principi vengono insegnati e trasmessi da una generazione all’altra.
All’inizio di quest’anno il critico culturale Ted Gioia ha pubblicato uno dei post più commentati e condivisi della storia di Substack: The State of the Culture, 2024.
Il post è lungo e merita una lettura integrale. Ma se non hai tempo, ti basta questa immagine:
Dalla Cultura alla dipendenza
Nella ricostruzione di Ted Gioia, in principio c’era la “Slow Traditional Culture” - la cultura tradizionale, quella che comunemente intendiamo come Cultura con la C maiuscola. Con i media di massa siamo passati all’intrattenimento (nello schema “Fast Modern Culture”), che con la sua tendenza alla facilità e alla rapidità ha semplificato la cultura tradizionale e ridotto il suo spazio di fruizione.
Nella fase digitale che viviamo oggi cultura e intrattenimento vengono rimpiazzati da attività compulsive, che hanno lo scopo di stimolare il rilascio di dopamina e creare dipendenza (nello schema “Dopamine Culture”).
Le persone diventano utenti (user, lo stesso termine che si usa per indicare chi è dipendente dalle droghe). Invece dei film, le piattaforme social ci servono sequenze infinite di video da 15 secondi. Invece di un’intera sinfonia, ascoltiamo spezzoni di sequenze audio, spesso accompagnati da brevi video. Invece di libri e giornali, ingeriamo pillole di contenuti e informazioni frammentate.
Diamo attenzione giusto alle micro-dosi necessarie per produrre le scariche di dopamina che ci tengono incollati alla piattaforma. E poi via con il prossimo contenuto, e la prossima scarica.
Dall’azienda che fa Cultura alla cultura aziendale
La mia tesi è che quello che Ted Gioia dice a proposito della cultura mainstream è accaduto anche dentro le organizzazioni.
C’è stata un’epoca in cui aziende e singoli imprenditori erano generatori di Cultura con la C maiuscola. L’esempio più prolifico, quello che ha lasciato forse il segno più profondo nel nostro immaginario, è la Apple di Steve Jobs. Lo Steve Jobs Archive è una raccolta di pubblicazioni, testimonianze, documenti che mostrano l’impatto che il lavoro di Jobs ha avuto sulla società. È un contenitore che nasce per ispirare generazioni future di professionisti e imprenditori a lasciare un segno positivo sul mondo, pensando in modo diverso e imparando a costruire cose meravigliose. Cose degne di essere tramandate attraverso le generazioni: esattamente l’essenza della definizione di cultura dalla quale siamo partiti.
In Italia sembra ormai lontanissimo il modello di Adriano Olivetti, un altro inesauribile produttore di cultura in tutte le sue forme, dall’arte all’educazione, dall’estetica all’urbanistica, con Ivrea simbolo dell’integrazione tra fabbrica, città e territorio. Olivetti era convinto che l’impresa avesse una responsabilità politica e sociale, e ha coinvolto nella sua attività imprenditoriale i più importanti intellettuali, scrittori, artisti a lui contemporanei, chiedendo loro di immaginare e costruire la cultura del futuro.
Tutto questo oggi è quasi scomparso: le organizzazioni hanno smesso di produrre Cultura, e hanno cominciato a generare cultura aziendale. Ovvero l’equivalente della cultura della dopamina di cui parla Ted Gioia.
Dalla Cultura al culto
La cultura aziendale oggi è una riduzione in pillole della Cultura che le aziende erano capaci di produrre. È un concentrato di piccoli contenuti standardizzati, generati artificialmente con il solo scopo di aumentare la produttività dell’organizzazione.
La produzione di eventi, conferenze, libri, ricerche sul contributo che l’organizzazione può dare alla società e alla sua cultura per le generazioni future sono stati sostituiti dai poster dei valori aziendali in ogni locale dell’ufficio, gli sfondi per le call, il merchandising, i team building forzati, le riunioni con presentazioni pseudo-intellettuali, i post di employer branding su LinkedIn, la falsa attenzione per temi fondamentali come l’inclusione o la sostenibilità (all’ODG delle aziende più per obbligo che per reale convinzione).
La Cultura è stata ridotta, frammentata e forzata fino a diventare un culto (che condivide la stessa etimologia della parola cultura) per l’azienda, un rituale a tratti grottesco. Il balletto di inizio giornata lavorativa rappresentato nel film di Virzì Tutta la vita davanti - ispirato dal libro Il mondo deve sapere, in cui Michela Murgia ha raccontato la sua esperienza da lavoratrice in un call center - forse è una caricatura, ma non si discosta tanto da certe cerimonie e da certi riti usati dalle aziende.
Trasfigurata in un set di regole, la cultura diventa uno strumento di potere in mano alle aziende, che possono usare il pretesto della cultura per esercitare una pressione indiretta sui dipendenti: come ha fatto Amazon, che annunciando il rientro in ufficio come un’operazione “culturale”, potrà dire che chi non vorrà allinearsi non avrà più posto nell’organizzazione.
La dipendenza dei dipendenti
L’impatto negativo di questa idea della cultura aziendale è evidente soprattutto per i comportamenti che genera.
La maggior parte delle organizzazioni ha strutturato sistemi di ricompense - premi, bonus, promozioni - pensati per stimolare il rilascio di dopamina nei lavoratori e quindi renderli dipendenti dalla cultura aziendale.
I premi vengono fatti calare dall’alto: di conseguenza chi lavora si sforza di raggiungere gli obiettivi non perché condivide lo scopo di lungo periodo dell’azienda, ma per compiacere il capo e ottenere gratificazioni nel breve periodo. Tutto ciò a scapito della creazione di valore sul lungo periodo e a volte anche a scapito dell’etica stessa dell’organizzazione.
La dipendenza da risultati e successo porta le persone a lavorare eccessivamente, in modo irrazionale e dannoso per sé, fino al burnout.
Questo meccanismo crea un disallineamento tra i valori dichiarati e i comportamenti, che rende la cultura aziendale un’illusione. Ogni leader si appropria della cultura e la distorce a proprio vantaggio: i dipendenti tendono a modellare il loro comportamento per allinearsi alle aspettative del leader, salvo poi tornare ai loro consueti atteggiamenti non appena il capo si allontana o è girato dall’altra parte.
Così la percezione della cultura aziendale risulta soggettiva, diventa legata alle aspettative e spesso agli interessi del singolo. La vera cultura di un’organizzazione si riflette nei comportamenti effettivi delle persone, ma la percezione di tali comportamenti varia notevolmente da individuo a individuo, influenzata soprattutto dal rapporto diretto che ciascuno ha con il proprio superiore.
Ecco perché una delle definizioni più belle di cultura è quella che ho sentito dare da Luca Sartoni: la cultura non è quello in cui l’organizzazione dice di credere, ma i comportamenti che tollera.
In pratica
Che cosa possono ricavare da queste riflessioni le organizzazioni e i lavoratori?
Per le organizzazioni
Da cultura aziendale → a community
Invece di continuare a ripetere i mantra della cultura aziendale, le organizzazioni dovrebbero strutturarsi come delle community. Il che significa definire uno scopo condiviso, stabilire regole di ingaggio chiare e trasparenti, favorire le connessioni tra le persone, e poi lasciare che ognuno contribuisca liberamente al raggiungimento degli obiettivi.
In questo modo non ci sarà bisogno di inculcare una cultura unica dall’alto, ma, proprio come nella società, potranno proliferare sottoculture e controculture, sempre però connesse a ciò che è importante per la community.
Il RenDanHeyi di Haier, uno dei più rivoluzionari modelli organizzativi esistenti, rovescia completamente l’idea alla base delle organizzazioni tradizionali. RenDanHeyi significa che le persone (Ren) di un’azienda sono connesse (Heyi) ai suoi clienti (Dan), ovvero non esistono barriere tra gli uni e gli altri.
Haier incoraggia l’autonomia, promuovendo una mentalità aperta e l’attitudine al rischio. È un modello opposto alla cultura fordista secondo cui il valore si crea attraverso un processo lineare, dove i dipendenti sono un ingranaggio della catena e svolgono il loro compito secondo le regole stabilite dall’alto. In Haier ogni dipendente è incentivato a perseguire i propri valori, a patto che questo generi valore per i clienti finali. In altre parole, finché è chiaro il principio fondamentale che governa il funzionamento della community (Value of people comes first), possono esistere teoricamente tante culture o sottoculture quante sono le persone che fanno parte di Haier.
È un modello rivoluzionario e preferibile, perché è costruito per far crescere l’organizzazione, lasciando spazio alla diversità di ciascuno. La diversità è essenziale. Una monocultura aziendale porta stagnazione e fragilità. Al contrario, la diversità permette a gruppi con competenze diverse di collaborare, imparare e migliorare, mantenendo l’azienda dinamica e competitiva. Non sarà una sola cultura a rendere l’azienda resiliente, ma la sua varietà di culture.
Per chi lavora
Da lavorare per qualcuno → a lavorare per qualcosa
La cultura aziendale esiste per stimolare la produttività e farci innamorare dell’azienda per la quale lavoriamo. In sostanza la cultura vuole convincerci che lavoriamo per l’azienda.
Ma se guardiamo questa relazione attraverso la lente della community, diventa abbastanza assurda: il membro di una community non lavora per chi gestisce la community. I cittadini di uno Stato non lavorano per il governo: lavorano per sé, per la propria famiglia, e per aumentare il benessere della collettività.
Pensare di lavorare per qualcuno ti fa perdere il focus, ti porta a compiacere il tuo capo per ottenere ricompense, ti spossessa di quello che fai. Ciò di cui invece è bello innamorarsi è lo scopo di un’organizzazione, il motivo per cui esiste, l’impatto che può avere, e il modo in cui può migliorare la vita dei suoi clienti.
Se proprio bisogna lavorare per qualcuno, è per i clienti dell’organizzazione: dovremmo impegnarci a dare loro qualcosa di valore, in cambio dei loro soldi e della loro attenzione.
E anche su questo ci aiuta il modello di Haier: non importa attraverso quale cultura lo fai, l’importante è che fai felice chi ha bisogno di noi.