Le parole sono importanti è una frase che si cita spesso – e in effetti è sempre più attuale in un mondo in cui il linguaggio s’impoverisce, oppure viene usato con scarsa consapevolezza.
Un filosofo diceva che noi non parliamo, ma siamo parlati dal linguaggio: le parole che usiamo ci influenzano, danno forma alle nostre idee, determinano le nostre azioni e i nostri comportamenti.
Questo è particolarmente vero nel mondo del lavoro, dove dalle parole che usiamo dipende anche come veniamo usati dalle organizzazioni con cui collaboriamo. E spesso le parole rivelano anche il modo in cui noi stessi pensiamo al nostro lavoro e al ruolo che svolgiamo: sono un designer o faccio il designer? lavoro per o lavoro con?
Le parole che usiamo per descrivere le aziende, i rapporti lavorativi, le persone che lavorano non sono neutre: nascondono una visione del mondo e del lavoro. E proprio le parole che più diamo per scontate, quelle che usiamo senza pensarci, molte volte rispecchiano sistemi di pensiero che abbiamo ereditato dal passato. E che non è detto siano ancora validi per noi oggi.
Se è vero che le parole trasformano la realtà, la scelta di parole diverse potrebbe aiutaci a cambiare il modo in cui concepiamo il lavoro e le sue forme organizzative.
Che azienda vuoi?
La parola organizzazione viene dal greco antico organon che vuol dire “strumento”. Indica quindi un gruppo ordinato e collegato di parti che formano un insieme. Organizzare significa mettere in ordine le parti e regolare le connessioni tra loro.
In questo senso, “organizzazione” fa pensare a un sistema di persone, attività e strumenti che lavorano bene insieme. Il termine indica anche l’uso di metodi e strutture per raggiungere degli obiettivi, soprattutto per essere efficienti e ottenere buoni risultati. È evidentemente una parola figlia dell’idea che l’azienda è una macchina che deve svolgere dei compiti e assolvere a delle funzioni che devono essere gestite, migliorate e ottimizzate.
La parola azienda, d’altra parte, viene dallo spagnolo hacienda, forma parallela all'italiano faccenda, derivata dal latino facienda, ovvero “le cose da farsi”. Un affaccendarsi che ritroviamo anche nell’inglese business, dal Middle English busyness (essere occupati), che a sua volta viene dall’antico bisignis che significa… ansia! E in effetti l’ansia è spesso il sentimento di chi ha tante cose da fare.
Ma organizzazione e azienda non sono le uniche parole possibili per definire le realtà in cui avviene il lavoro.
Esplorando la storia delle forme organizzative ho riscoperto lo straordinario lavoro di Margaret Wheatley, a partire da un articolo dal titolo: The Irresistible Future of Organizing.
Wheatley elaborava nel 1996 una tesi che sembra parlare al mondo di oggi: abbiamo costruito organizzazioni che si comportano come macchine. Ma perché dovremmo lavorare all’interno di sistemi che funzionano come macchine e ci costringono a comportarci come macchine? Le macchine non hanno vita, sono progettate per funzionare in ambienti controllati, previsti e progettati dagli ingegneri, con la conseguenza che ogni cambiamento imprevisto può causare la loro distruzione.
Molto meglio, dice Wheatley, pensare a un’organizzazione come a un sistema vivente. E per indicare questo sistema vivente possiamo usare termini che sono molto più “vivi” del meccanico “organizzazione”.
Per esempio possiamo usare compagnia, una parola bellissima che viene da companio, termine di matrice barbarica che indica “chi mangia il pane insieme”. Evoca una forte idea di condivisione e di gruppo: pensiamo alla compagnia teatrale, al gruppo di amici, persino alle compagnie di assicurazioni che nascono proprio dall’idea di mettersi insieme per affrontare collettivamente le difficoltà dei singoli.
O ancora la parola società, dal latino socius, cioè "amico, alleato".
E infine la mia preferita, impresa, una parola che evoca la missione di un cavaliere o di un eroe, lo scopo ultimo della sua vita, la cosa per cui era disposto a dare tutto, tanto da trasformarla in un emblema che si portava addosso, cucito sugli abiti o sulle sue bandiere. L’impresa infatti nel Rinascimento indicava sia la missione, sia il simbolo che la ispirava.
Impresa ha il sapore dell’avventura, ma anche dell’incertezza e del rischio che sempre accompagnano il tentativo di compiere qualcosa di difficile e sconosciuto; e poi c’è la tenacia di seguire uno scopo e portare a termine un compito.
Forse è la parola che meglio tiene insieme l’idea che il lavoro deve essere finalizzato a fare cose importanti e difficili: importanti, perché deve creare valore; difficili, perché le sfide hanno davvero il potere di trasformare le nostre vite, portandole a un livello superiore di intensità.
Che leader sei?
Prima di entrare nel contesto aziendale, il verbo (to) manage, che ha la stessa radice del latino manus (mano), aveva il significato di “maneggiare i cavalli”. La parola richiama ciò che accade nel maneggio, luogo in cui le mani vengono utilizzate per impugnare le briglie e condurre i cavalli.
I cavalli moderni sono le aziende e le persone che ci lavorano. Manage è una parola che evoca il potere, il controllo fisico serrato. Sebbene oggi le aziende si presentino come più collaborative e orientate al lavoro di squadra, la realtà spesso rivela una netta distinzione tra chi ha il controllo e chi è soggetto a quel controllo, con dinamiche gerarchiche ben definite e poche opportunità di condivisione equa del potere decisionale.
Anche il concetto di empowerment è un’illusione. Il fatto che ci sia qualcuno che possa cedere potere a qualcun altro sottintende una gerarchia, e suggerisce l’idea che il potere, così come è stato dato, può essere tolto.
I pronomi sono rivelatori. Espressioni come “le nostre persone”, che si trovano nelle pagine chi siamo di tantissime aziende, suggeriscono l’idea che le persone siano una proprietà dell’azienda. E non è raro sentire ancora manager che usano espressioni possessive come “i miei dipendenti”.
Come si crea allora ordine evitando di “gestire” le persone con il comando e il controllo, come se fossero cavalli?
Ancora una volta è la Wheatley a suggerire una direzione: le organizzazioni come sistemi viventi si auto-organizzano. Proprio come nei sistemi naturali, in cui l’ordine è una proprietà che emerge dal basso, nelle situazioni in cui le persone sono libere di prendere l’iniziativa e assumersi la responsabilità l’organizzazione si forma spontaneamente. Accade nei gruppi informali, nel gioco dei bambini, nelle situazioni di emergenza, ma anche nel caso di comunità più strutturate: pensate alla costruzione di Wikipedia.
Quando l’organizzazione diventa un sistema vivente, il leader diventa un host. La parola deriva dall’antico francese (h)oste, che a sua volta proviene dal latino hospit-, radice di hospes, che significava sia colui che ospita, sia colui che è ospitato.
Si pensa che la parola possa essere derivata da un antico composto che suonava come ghosti-potis, “signore degli stranieri” (potis, come in potente, potenziale, e forse despota). Dobbiamo passare dall’idea del leader come eroe a quella del leader come ospite, colui che è capace di accogliere e di farsi accogliere.
Riusciamo a essere accoglienti, cordiali e aperti con le persone che lavorano con noi allo stesso modo in cui lo saremmo con gli ospiti a una festa? È possibile solo se nutriamo una fiducia profonda nelle persone. Non si può delegare potere a persone di cui non ci si fida.
Chi vuoi al tuo fianco?
Dipendente viene dal latino dependēre, cioè "pendere da”. Nel lavoro essere dipendenti significa essere sottoposti all'autorità di altri, non avere autonomia. Dipendenza è la stessa parola che usiamo per chi abusa di farmaci o droghe, cioè non ha la capacità o possibilità di liberarsi dalle sostanze.
Vuoi lavorare con persone che dipendono sempre da qualcosa o qualcuno? O piuttosto con persone indipendenti, autonome nella gestione del lavoro, capaci di individuare e risolvere problemi, di adattarsi al contesto in evoluzione, delle quali ti fidi e a cui deleghi volentieri il lavoro?
Ecco, persone così sicuramente non dovremmo chiamarle risorse umane.
Come evidenzia Cliff Weathers nel suo articolo del 2015, è negli anni ‘80 che la stabilità aziendale lascia il posto ai cambiamenti organizzativi rapidi dettati dalla necessità di stare al passo con la globalizzazione e il progresso tecnologico. Tutto deve essere gestito e ottimizzato, anche le persone. È in quegli anni che si compie il rebranding del “personale” in “risorse umane”, termine che segna il definitivo passaggio da persone considerate partner fedeli e creativi in un’impresa produttiva a persone come asset da far fruttare e da valutare sulla bilancia dei costi e dei ricavi.
Molto più interessante di dipendente o di risorsa umana è la parola collega, dal latino composto di cum (insieme) e legare (incaricare, mandare).
Collega esprime un legame professionale fondato sulla condivisione di responsabilità e obiettivi. È una parola chiara e diretta, che implica una solidarietà reciproca tra chi lavora fianco a fianco.
E a proposito di colleghi, se non ne abbiamo già uno è probabile che il nostro prossimo collega sarà un robot.
La parola robot viene dalla traduzione inglese dell’opera teatrale del 1920 “R.U.R.” (“Rossum’s Universal Robots”) di Karel Čapek (1890-1938). Il termine robot traduce il ceco robotnik, “lavoratore forzato”, da robota, “lavoro forzato, servizio obbligatorio, fatica,” e da robotiti “lavorare, faticare”. Tutta questa famiglia di parole deriva a sua volta da una fonte del vecchio ceco affine all’antico slavo ecclesiastico rabota “servitù,” da rabu “schiavo.”
Il robot è uno schiavo e questa etimologia riflette il modo in cui ci siamo rapportati alla tecnologia fino a oggi: come uno strumento al nostro servizio, che potevamo gestire e dominare - seppure sempre con l’inquietudine di una possibile ribellione delle macchine, spesso rappresentata da cinema e letteratura.
Oggi, tuttavia, questo rapporto di servitù non sembra più così lineare e univoco come è stato in passato. Se la parola robot nasce per indicare un lavoratore meccanico al servizio dell’umanità, quando lavoreremo fianco a fianco con uno di loro varrà la pena chiedersi: è lui al mio servizio, o sono io al suo?
Articolo interessante su AI agents (non so quanto "vero" ma se non ancora così dobbiamo pensare che a brevissimo lo sarà):
https://www.linkedin.com/pulse/agentic-ai-new-frontier-thats-already-here-simon-torrance-hihme/